Violenta, cruda e dissacrante. No, non stiamo parlando di una pellicola in uscita, ma di una guerra tra uomini. Le nuove generazioni non si aspettavano certo di finire in un periodo storico come questo, dove i telegiornali fanno paura e il futuro è incerto. I sentimenti che provano sono naturali e leciti, ma sicuramente non nuovi per le generazioni passate, che conoscono le origini secolari del conflitto nella striscia di Gaza, hanno assistito ai primi punti di rottura tra la Russia e l’Ucraina (risalenti al febbraio 2014), hanno vissuto le barbarie naziste o sono cresciute guardando gli sviluppi dei conflitti in Vietnam, in Iraq o nei Balcani. I media, avendo funzione divulgatrice e occupando una posizione di rilievo, possiedono il monopolio del traffico d’informazioni su questi scontri, selezionate in base ad una serie di fattori che non serve approfondire in questo determinato contesto.
Un discorso che, invece, vale la pena di aprire è quello sull’alternativa che offre l’arte, varia e senza pretese. Essa apre una finestra sul mondo, prescindendo dal tempo e senza strade preimpostate da seguire, se non quella del punto di vista dell’artista qualunque, provocatorio e cantastorie. Ebbene, una finestra si è aperta in questi giorni con il ritorno nei cinema di “Full Metal Jacket” (1987), che ci dimostra come la guerra non sia poi così cambiata da quell’epoca apparentemente lontana.
Odio, brutalità, disperazione e tanta politica perpetuata sulle spalle di civili inermi e soldati spinti oltre i propri limiti. Riproposta in vista del 25° anniversario dalla morte del suo regista, il visionario Stanley Kubrick, quest’opera mette alla berlina l’uomo-macchina, costretto ad oltrepassare un confine tagliente con in testa il silente desiderio di tornare indietro, ma con la consapevolezza di non poterlo fare. “Bellum omnium contra omnes” affermava Thomas Hobbes, mentre definiva gli uomini in battaglia come lupi nemici dei propri simili, mentre diverso è il punto di vista politico-strategico, dove il concetto che prevale è quello del potere e del denaro. Se si parla di guerra, spesso viene utilizzato il termine “disumano”, come se essa non facesse parte dell’essere umano, ma questo non è corretto. Il conflitto e la violenza, per quanto orribili possano essere, sono elementi naturali elevati artificiosamente oltre sé stessi. La guerra non è solo furia, strategia e sadismo, ma spoglia l’individuo del proprio io, obbligandolo a lottare nudo, debole ed incapace di mascherare il proprio essere. Dunque, chi ha una natura sadica e violenta non può nasconderla, invece chi è debole non può difendersi e ciò porta il primo a rivelarsi e ad esporsi, mentre il secondo è destinato al collasso. Questo dualismo viene rappresentato nel film in modo magistrale, attraverso scene emotivamente forti ed impattanti, al di là della violenza stessa. Nella parte iniziale del film assistiamo all’addestramento dei soldati, in cui il severo sergente Hartman urla prepotentemente verso i suoi allievi con un linguaggio offensivo e, allo stesso tempo ironico. Questa prima fase espone in modo tragicomico l’ambiente difficile delle accademie militari, che iniziano i giovani cadetti a sopravvivere costantemente sottopressione in un ambiente tossico ed ostile, creando, però, un distacco tra le dinamiche semi-simulate dell’addestramento e la cruda realtà della guerra vera e propria. Questo, tuttavia, crea i presupposti per un lungo discorso sul fenomeno del nonnismo e sui soprusi che i giovani militari sono costretti a vivere sin dagli albori della loro carriera, distruggendoli psicologicamente ancor prima di mettere piede sul campo di battaglia e portandoli anche a commettere suicidio. La fase conclusiva dell’opera, invece, si concentra sull’etica del dovere, della lealtà e della pietà, mostrando quanto fragili siano queste ultime due in un contesto di guerra. Il finale di “Full Metal Jacket” è iconico e, anche in questo, l’emotività ha un ruolo cruciale, rappresentando i soldati sopravvissuti che, dopo aver compiuto l’ultimo gesto estremo per adempire al loro dovere ed esaurire il proprio ruolo nello scontro, marciano tra le macerie intonando una canzone innocente e bambinesca con tono stremato e soddisfatto, felici di essere aver portato a termine il proprio compito e, soprattutto, felici di essere ancora vivi e poter tornare a casa.